lunedì 4 aprile 2016

LA STORIA DEL RISO

Il celebre libro di M.M. Bachtin (1895-1975) su Rabelais L’opera di Rabelais e la cultura popolar e medievale e del Rinascimento vide la luce nel 1965, ma la preparazione alla stampa cominciò ancora negli anni ’30 e può ben considerarsi il capolavoro di questo autore.

La lettura che Bachtin propone qui delle peripezie di Pantagruel e Gargantua inscrive questi personaggi all’interno della cultura del riso propria ancora del Medioevo. Tralasciando la questione dell’appropriatezza dell’interpretazione che Bachtin dà dell’opera di Rabelais, ci concentreremo sull’esegesi del significato della cultura del riso medievale che Bachtin rivela. Bachtin, infatti, vede nell’opera di Rabelais la realizzazione di una presa di coscienza pienamente sviluppata della cultura del riso, legata ancora al grottesco medievale.

Una delle critiche più celebri mosse alla teoria di Bachtin appena esposta proviene da un altro grande pensatore russo, ovvero S. S. Averinzev (1937-2004). Qui prenderemo in considerazione due brevi saggi che l’autore dedicò a Bachtin e in modo particolare alla sua analisi del riso.
In essi Averinzev osserva come il punto di partenza di Bachtin nel trattare l’elemento comico in Rabelais sia in realtà legato alla concezione prettamente russa di ascetismo. E’ da qui che deriva in qualche modo l’entusiasmo bachtiniano. Laddove anticamente la cultura russa lega il riso ad una “forza scatenante”, ovvero ad un movimento irrefrenabile, all’interno dell’omiletica cattolica di secolo in secolo è possibile osservare un tentativo di domare il riso, il che indica che la visione cattolica di questo fenomeno è diametralmente opposta a quella ortodossa tradizionale. Il riso qui diventa, infatti, passibile di una regolamentazione. Secondo Averinzev, Bachtin non pone abbastanza accento sul fatto che la libertà carnevalesca sia comunque una libertà regolamentata, dal momento in cui appartiene alle regole stabilite da un ben preciso calendario.

LE IMMAGINI E LE FORME DELLA FESTA POPOLARE

Il tema carnascialesco è ricco di immagini e forme della festa popolare.
Esistono infatti, oltre all’immagine del corpo e a quella del banchetto, numerose altre forme come:
  • la figura del re
  • la sconsacrazione delle campane
  • la parodia del Corpus Domini
  • il gioco
  • la donna
  • la figura del vecchio

Tutte le forme e le immagini della vita della festa popolare del Medioevo hanno suscitato nel popolo una sensazione analoga di unità. Questa unità non aveva un carattere così semplicemente geometrico e statico, ma era più complessa, più differenziata e, cosa più importante, era storica.

Sulla piazza pubblica del Carnevale, il corpo del popolo sente soprattutto la sua unità nel tempo, la propria durata interrotta in esso, la propria relativa immortalità storica.

Il carnevale con tutte le sue immagini, le sue scenette, oscenità e imprecazioni con valore assertivo, mette in scena il dramma dell’immortalità e della indistruttibilità del popolo. Nell’universo carnevalesco la sensazione dell’immortalità del popolo è legata a quella della relatività del potere esistente e della verità dominante.

Le forme della festa popolare sono rivolte al futuro e rappresentano la vittoria di questo futuro sul passato: è la vittoria dell’abbondanza dei beni materiali, della libertà, dell’uguaglianza e della fratellanza.


LE IMMAGINI DEL BANCHETTO

Nell’opera di Rabelais le immagini conviviali, cioè quelle del mangiare, del bere, del nutrimento e dell’assimilazione del cibo, sono direttamente legate alle forme della festa popolare, ovvero il carnevale.
Non si tratta comunque del bere e del mangiare come atti quotidiani e facenti parte dell’esistenza di ogni giorno del singolo individuo, ma si tratta piuttosto del BANCHETTO che si svolge durante il Carnevale.

Tutte le immagini del bere e del mangiare hanno in Rabelais una forte tendenza all’abbondanza e all’universalità che determina la loro iperbolicità positiva e il loro tono trionfale e gioioso.



Ma come si spiega questo ruolo eccezionale e universale delle immagini del banchetto?

Il mangiare e il bere sono una delle manifestazioni più importanti della vita del corpo grottesco ed è nell’atto del mangiare che queste immagini si manifestano nel modo più tangibile e concreto.


Le immagini del banchetto sono profondamente attive e trionfanti poiché concludono il processo di lavoro e di lotta dell’uomo, infatti il banchetto celebra sempre la vittoria, “tristezza e mangiare sono incompatibili. Il trionfo del banchetto è universale: è il trionfo della vita sulla morte.” Il banchetto è universale e legato organicamente alla rappresentazione della vita, della morte, della rinascita e del rinnovamento.


“Qui l’uomo assapora il mondo, sente il gusto del mondo, lo introduce nel suo corpo e lo rende parte di se medesimo.”-M.Bachtin, "Rabelais e la cultura popolare"





L'IMMAGINE GROTTESCA DEL CORPO


Un tema grottesco dominante nell’opera di Rabelais è sicuramente il corpo. Esso viene rappresentato sotto tutti gli aspetti, nella struttura anatomica, nel funzionamento fisiologico (mangiare, bere, fare l’amore, defecare), nella nascita e nella morte.



 L’Umanesimo rivaluta il corpo in nome dell’ideale classico di un’armoniosa integrazione fra anima e corpo. Rabelais oltre che umanista, era medico e aggiunge all’immagine umanistica del corpo, bello, elegante, specchio della perfezione interiore, un’altra immagine caratterizzata da una realistica, biologica materialità: l’immagine del corpo grottesco, deforme, gigantesco, scandaloso, che si oppone all’estetica classica e rinascimentale del bello per attingere alla tradizione comica e popolare.



Bachtin valorizza il significato ideologico della tematica del corpo in Rabelais collegandolo all’effetto liberatorio e dissacrante del riso e alla concezione carnevalesca della vita.


Egli, inoltre, vede in questa rappresentazione del corpo il segno di una rivoluzione contro la vecchia concezione della vita, lo strumento di distruzione dell’assetto gerarchico medievale e di fondazione di un nuovo quadro del mondo. Il corpo grottesco è un corpo in divenire. Non è mai dato né definito: si costruisce e si crea continuamente ed è esso stesso che costruisce e crea un altro corpo.

In tal modo la gerarchia spaziale e morale del mondo medievale si dissolve. L’alto e il basso divengono relativi, non si riferiscono più a un sistema di valori organizzato verticalmente. Questa ristrutturazione del cosmo in senso orizzontale si realizza “attorno al corpo umano, che è diventato il centro relativo del cosmo. Ma questo cosmo non si muove più dal basso verso l’alto, ma in avanti, sulla linea orizzontale del tempo, dal passato verso l’avvenire.” -M.Bachtin, "Rabelais e la cultura popolare"



LA SCRITTURA DELL'ECCESSO

LA SCRITTURA DELL’ECCESSO IN RABELAIS



Rabelais intraprese diversi viaggi in Italia, soprattutto a Roma e in Piemonte, dove ebbe la possibilità di confrontarsi con la letteratura Italiana del tempo e di ispirarsi alle opere di importanti autori italiani come Pulci, Folengo e perfino Castiglione. Rabelais resta però lontanissimo dal senso della misura e dell’equilibrio che era proprio di Cortigiano, e semmai riprende e sviluppa in modi originalissimi la tendenza ad una scrittura dell’eccesso presente in Pulci e Folengo.

Essa si manifesta sul piano dell’invenzione tematica e di quella linguistica. Il plurilinguismo di Rabelais spazia dai numerosi tecnicismi agli arcaismi tratti dalle lingue classiche, dal linguaggio della disquisizione filosofica a quello plebeo e dialettale. Inoltre egli crea numerosi neologismi, deformando parole già esistenti e inventandone di integralmente nuove.



“Ad ogni foglio si incontrano, audacemente accostate, scurrilità geniali, o ribalde, o melense, ed insieme citazioni (autentiche e non, quasi tutte fatte a memoria) da testi latini, arabi, ebraici; dignitose e sonanti esercitazioni oratorie; sottilità aristoteliche da cui si diparte una risata da gigante, altre sottoscritte ed avallate con la buona fede dell’uomo di vita pura.

[…] L’insegnamento rabelaisiano è estremistico, è la virtù dell’eccesso: non solo Gargantua e Pantagruele sono giganti, ma gigante è il libro per mole e per tendenza; gigantesche e favolose sono le imprese, le baldorie, le diatribe, le violenze alla mitologia e alla storia, gli elenchi verbali.”- Primo levi, "L'altrui mestiere"






domenica 3 aprile 2016

L’INTERPRETAZIONE DEL GARGANTUA E PANTAGRUELE

L’originalità della rappresentazione, nel Gargantua e Pantagruele, sta nel fatto che essa genera nel lettore una profonda insicurezza per il rapido mutamento del punto di vista e per la straordinaria ricchezza di prospettive.

La lingua di Rabelais è una lingua visiva, che unisce la parola all’immagine e dà alla rappresentazione una forza fantastica. Il ricorso all’iperbole e all’accumulazione, il gusto del dettaglio portato fino al paradosso provocano un’alterazione dimensionale e una continua sfaccettatura delle cose, illuminate da molteplici punti di vista.

Gargantua e Pantagruele è un libro molto amato dallo scrittore Primo Levi: per concludere quest’argomento riportiamo la sua opinione a riguardo dell’opera in quanto riflette pienamente la concezione a noi contemporanea.
Secondo Levi questo romanzo è pieno di ottimismo e rappresenta uno dei frutti più alti della società del Rinascimento: Rabelais è convinto della bellezza della vita e ne esalta i piaceri materiali. In particolare Panurge, che è quasi  il personaggio autobiografico, rappresenta il prototipo dell’uomo moderno che, pur con tutte le sue contraddizioni, ha fiducia nel futuro e vive con pienezza.
L’atteggiamento vitalistico e l’esaltazione della “virtù dell’eccesso” entrano in conflitto con l’ascetismo della morale religiosa del tempo e sembrano contraddire l’immagine biografica del Rabelais monaco francescano, saggio e misurato, che è arrivata fino a noi.
Nel Gargantua e Pantagruele tutto è smisurato, eccessivo.



IL BALDUS: “L’INVOCAZIONE INIZIALE ALLE MUSE MACCHERONICHE”

Il tema della corporalità e della materialità si ritrova con una particolare efficacia nel Baldus di Teofilo Folengo.

Egli fa convivere con interazioni comiche la cultura popolare e quella umanistica (fondata principalmente sulla conoscenza di Virgilio) e analogamente, con inevitabile effetto comico e trasgressivo, fonde due sistemi linguistici estranei tra loro: il latino e il volgare.


“Mi è venuta la fantasia –matta più che mai- di cantare con le grasse Camene la storia di Baldo. La sua fama altisonante, il suo nome gagliardo ammira tremando la terra, e il baratro d’inferno per la paura si caca addosso. Ma bisogna prima invocare l’aiuto vostro, o Muse che effondete con larghezza l’arte maccheronica. Potrà mai la mia gondola superare gli scogli del mare, se il vostro aiuto non l’avrà raccomandata? No, i carmi non mi detti Melpomene, né quella minchiona d’Italia né Febo che gratta la sua chitarrina; ché, se penso alle budella della mia pancia, non si addicono alla mia piva le ciance di Parnaso. Ma soltanto le Muse pancifiche, le dotte sorelle, Gosa, Comina, Striazza, Mafelina, Togna, Pedrala, vengano a imboccare di gnocchi il loro poeta, e mi regghino un cinque o un otto catini di polenta”.


Le grasse Camene qui invocate non sono il rovescio comico delle Muse: non vivono sul monte Parnaso ma nel paese di Bengodi, trasfigurazione di quello favoloso della Cuccagna; hanno nomi rustici di donne contadine, non sono dedite ad altre attività rivolte a nobilitare la vita umana ma cuociono maccheroni e polenta. L’elemento comico-parodico è inoltre collegato al tema dell’eccesso e alla figura dell’iperbole, come appunto si era già accennato: nel paese di Bengodi tutto è gigantesco. Il paesaggio, insomma, non è misurato ed idillico con ruscelli, alberi e greggi come nella tradizione classica, ma smisurato e ricco di umori grossolani legati al motivo del cibo. Va segnalato quindi un parallelismo tra il tema dell’eccesso e le forme della scrittura, tendenti anch’esse all’elencazione iperbolica.